mercoledì 27 novembre 2013

AVVENTO, TEMPO TRA IL "GIA'" E IL "NON ANCORA"

L'Avvento, il tempo liturgico che va dai primi Vespri della domenica più vicina al 30 novembre a prima dei primi Vespri di Natale, è alle porte.
Il termine deriva dal latino adventus e significa "venuta, arrivo". Si è soliti affermare, anche giustamente, che l'Avvento è il tempo liturgico propizio per prepararsi al Natale; eppure esso non può limitarsi ad una preparazione, seppur spiritualmente significativa, di un avvenimento accaduto 2.000 anni fa, la nscita di Cristo. S.Cirillo d'Alessandria, nelle sue Catechesi, affermava: "non limitiamoci a meditare solo la prima venuta di Gesù, ma viviamo in attesa della seconda". Infatti i due eventi sono in stretto rapporto tra loro e si richiamano a vicenda.
Nella stessa parola "Avvento" si esprime un particolare intreccio tra passato e futuro: nel misterioso disegno di salvezza che Dio ha pensato per l'umanità, l'Incarnazione nel tempo di Gesù, avvenuta 2.000 anni fa, si compirà definitivamente come evento salvifico alla fine dei tempi, quando il Signore tornerà nella gloria. 
Tra il "già" e il "non ancora" della salvezza, c'è il tempo dell'attesa. L'Avvento si presenta come il tempo dell'attesa del compiersi della salvezza: nell'attesa gioiosa della festa del Natale (il 'già'), siamo orientati verso il ritorno glorioso del Signore (il 'non ancora'), "quando egli trasfigurerà il nostro corpo mortale ad immagine del suo corpo glorioso".
La seconda venuta di Cristo, alla fine dei tempi, è tema ricorrente soprattutto nelle prime settimane di Avvento ed è in stretto rapporto con la prima venuta: la certezza della venuta di Gesù nella carne si incoraggia ad attendere il suo ritorno nella gloria.
Vivendo oggi l'attesa del ritorno glorioso di Cristo, potremmo dire che siamo continuamente "in Avvento", cioè siamo chiamati all'attesa e alla vigilanza perseverante.
L'immagine di Chiesa che si addice maggiormente al tempo di Avvento è quella del popolo peregrinante, noi siamo tutti popolo in cammino e il nostro pellegrinare non è un vagare smarriti, senza bussole e senza méta. Cristo è per noi luce che illumina e via che conduce al Padre. Da parte nostra, però, durante questo continuo pellegrinaggio, è richiesto l'atteggiamento della vigilanza. Vigilanza significa impegnarsi nel mondo e, allo stesso tempo, attesa per la venuta del Signore.
La vigilanza, inoltre, richiede ascesi, esige conversione e la conversione va dimostrata attraverso le opere. Ecco perchè il tempo di Avvento ben si presta a scuotere la nostra pigrizia e ad incoraggiarci nell'attuazione di opere buone.
Procediamo spediti verso il Natale del Signore, in attesa della sua seconda venuta gloriosa.



















giovedì 31 ottobre 2013

Solennità di tutti i Santi

Domani ci viene offerta una preziosissima occasione: guardare in Alto, in Cielo per contemplare la Gerusalemme celeste, quel Regno glorioso in cui miriadi di uomini, donne, bambini, vecchi, laici, consacrati adorano in eterno il volto di Dio.
Perché questa solennità? Anzitutto perché ci richiama alla mente ciò a cui siamo destinati, ci apre gli orizzonti, ci dà l'opportunità di..."respirare" a pieni polmoni. Il destino di ciascuno di noi non è la tomba, non è il cimitero, ma è la gloria del Paradiso. Quanta gioia infonde questa speranza!
Mai come in questi tempi, in cui tutto, particolarmente un materialismo devastante, ci porta ad abbassare lo sguardo, a puntare in basso, la festa dei Santi estende all'infinito il nostro spirito. Davvero una boccata d'ossigeno.
Chi sono i santi? Sono quelli che devotamente visitiamo nelle cappelle delle nostre chiese? Anche, ma non solo. Il pensiero non può non andare a quella infinita schiera di anime sante di uomini e donne semplici, umili, mansueti, che hanno saputo vivere nella quotidianità il loro percorso di santità. L'Apocalisse (I Lettura) a questi fa riferimento quando afferma: "ecco, una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua". Ognuno pensi ai "santi" della propria famiglia, di quanti, nel proprio piccolo, hanno saputo coltivare le Beatitudini, sono stati seminatori di pace, assetati di giustizia, puri di cuore, misericordiosi...
Anche noi siamo chiamati a raggiungerli, sforzandoci di vivere santamente la nostra esistenza, senza gesti eclatanti, ma nella semplicità della nostra povera esistenza.

E guardando alla gloria dei Santi varcheremo, con spirito rinnovato, le porte del cimitero in questi giorni dedicati alla commemorazione dei nostri cari defunti.
Ogni anno la Chiesa raccomanda una maggiore essenzialità anche negli atti e nei gesti che compiremo sulle tombe dei nostri parenti. Vedremo gente più c'altrove troppa, (Dante, Canto VII) con mazzi di fiori senza numero, perché la tomba del proprio caro sia "più addobbata" di quella del vicino; vedremo gente seduta nelle cappelle private a far tutto, tranne che a pregare; vedremo nuclei familiari divisi tra loro, a causa di una eredità non equamente suddivisa tra gli eredi, i quali ora, ipocritamente, fingono di andare d'accordo attorno alla lapide marmorea del caro defunto. Facciamo verità in noi stessi.
Cosa fare per i cari defunti? Pregare. Diceva S.Agostino: "Per i nostri cari defunti, le lacrime si asciugano, i fiori appassiscono, la preghiera invece resta in eterno dinanzi a Dio". La Chiesa suggerisce di lucrare l'indulgenza plenaria (cfr. http://www.qumran2.net/materiale/anteprima.php?id=1641&anchor=documento_1&ritorna=%2Findice.php%3Fdata%3D2013-11-01%26liturgia%3DS1101%26ordinamento%3Daree&width=1366&height=682), di far celebrare Messe di suffragio.

Abbraccio tutti, soprattutto quelle famiglie che, in questi ultimi mesi, hanno perso tragicamente i proprio cari. Vi sono vicino con la preghiera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

sabato 10 agosto 2013

"...MEDITO E IL MIO SPIRITO SI VA INTERROGANDO" (Salmo 76)

Ci sono frasi che rappresentano il programma di una vita; la liturgia ne è piena. In particolare sono i riti di ordinazione diaconale e presbiterale ad offrire spunti per una riflessione senza tempo.
Mi risuonano ancora quelle espressioni lapidarie, taglienti ed imperative che il Vescovo mi consegnò quella sera di mercoledì 14 settembre 2011, all'atto di consegnarmi il libro dei Vangeli come previsto dai riti esplicativi dell'ordinazione diaconale: Ricevi il Vangelo di Cristo del quale sei divenuto l'annunziatore: credi sempre a ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni. Chi di voi, ascoltando queste parole, non si sarebbe sentito piccolo piccolo, inerme, incapace di attualizzarle? Umanamente è impossibile. Meno male che il buon Dio è capace, per sua grazia, di trasformare la nostra povertà in "qualcosa di buono"!
A circa due anni dall'ordinazione diaconale sento ancora tutto il peso di quelle parole che mi furono consegnate. A circa 40 giorni dalla ordinazione presbiterale, andando a sbirciare cosa prevede il rito di questo evento, leggo altre espressioni che pesano come macigni. Quando ormai la preghiera consacratoria sarà stata elevata e il Vescovo avrà imposto sul mio capo le sue mani, invocando lo Spirito Santo, saranno ancora una volta i riti esplicativi a esplicitare appunto il significato di quanto avvenuto.
Alla consegna del pane e del vino, il Vescovo dirà: Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo. Parole che non hanno bisogno di aggiungere altro.
Ricevendo ogni giorno il pane e il vino dai fedeli durante la S.Messa, perché, attraverso la preghiera consacratoria, divengano Corpo e Sangue di Gesù, il sacerdote deve assumere la consapevolezza della grandezza di quanto accade sull'altare. "Renditi conto di ciò che farai", cioè sappi che per mezzo tuo Dio scenderà in terra, visiterà il suo popolo e donerà il Pane degli angeli, cioè Se stesso. Questo mistero è grande, grande quanto lo stesso sacerdozio che, come diceva il santo Curato d'Ars, non comprenderemo mai del tutto. Paradossalmente (ma teologicamente scorretto), potremmo dire che Dio si rende "dipendente" del sacerdote, "obbedisce" al sacerdote, perché è grazie al sacerdote che, durante la S.Messa, durante e con la preghiera consacratoria, quel pane e quel vino diventano realmente Corpo e Sangue di Cristo. Senza sacerdote non avremmo il Corpo di Cristo. Incredibile!
"Imita ciò che celebrerai". Oggi si imitano tante cavolate. I ragazzi, spesso, diventano dei grandi imitatori di questo o di quel modello: la cresta di Hamsik o di El Shaarawy, il tatuaggio come quel cantante rock, la grinta di quell'attore americano... Si finisce per essere tante maschere, ma poco se stessi.
Il rito qui chiede al novello sacerdote di imitare ciò che si celebra; e cosa si celebra? Cristo offerente, Gesù che si dona, si offre, si dà completamente per il suo popolo. Tutta la vita di Cristo è stato un continuo donarsi, mai un trattenersi. Il sacerdote è chiamato ad imitare questo stile, a essere sempre per gli altri, tutto per gli altri.


Infine, "conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo". Parole, se possibile, ancora più impegnative.
La vita del sacerdote, se vissuta autenticamente, non è mai una passeggiata. Nella vita del sacerdote splende, con tutto ciò che comporta, la croce di Cristo. Il sacerdote deve sapere che annunciare Cristo ed il Vangelo comporta, in risposta, gomitate da chiunque. A tal proposito ricordo quanto ebbe a dire qualche anno fa Benedetto XVI in un'intervista: "La Chiesa non deve temere le persecuzioni, anzi, qualora non ne trovasse, dovrebbe iniziare a chiedersi se proclama veramente il Vangelo di Cristo". C'è poco da fare, croce e mondo non sono affatto sinonimi ed il secondo, spesso, rifiuta la prima. Il sacerdote è chiamato a scegliere.
Ma attenzione!! Uno potrebbe dire: ma allora la vita del sacerdote è sempre una croce? E' una croce, ma è la croce di Cristo. La croce di Cristo si apre sempre alla resurrezione; per evitare che si pensi alla vita del sacerdote come a una vita di sofferenza e di passione, no no!! La croce di Cristo è speranza, è rinascita...è vita.
Come mi sentirò quella sera del 19 settembre prossimo ascoltando quelle parole? Sicuramente molto più piccolo e indegno di quanto possa immaginare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

giovedì 4 luglio 2013

Che tristezza, le parrocchie vanno in vacanza.

Eh già, dopo le estenuanti fatiche pastorali dell'anno liturgico, con l'arrivo dell'estate anche le parrocchie affiggono all'ingresso la scritta "Chiuso per ferie". Che tristezza questo stile!!!
Mi faceva riflettere un articolo che ho letto in questi giorni di uno dei più grandi pastoralisti d'Italia contemporaneo; questi affermava: "Avviene, forse inconsapevolmente, che le attività delle nostre comunità parrocchiali seguono una calendarizzazione che riprende similmente, se non identicamente, il modello scolastico: iniziano tra settembre/ottobre e terminano tra maggio/giugno con la celebrazione delle Prime Comunioni. Poi, tutto tace o quasi durante i mesi di luglio e agosto, fatte salve, almeno quello, le celebrazioni eucaristiche".
Perchè ritengo alquanto desolante questo stile? Perchè credo che i mesi di luglio ed agosto andrebbero sfruttati ugualmente per continuare a realizzare una pastorale permanente che, per sua natura, non può mai sospendersi.
Ad esempio, luglio e agosto sono un tempo propizio per:

1. continuare o, addirittura, incominciare percorsi di pastorale biblica o liturgica aperti ai fedeli che non andranno in villeggiatura per 60 giorni (soprattutto in questo tempo di crisi economica che non permette) e, dunque, sarebbero facilmente reperibile e, forse, più disponibili a seguirli. Ne sarebbero ancor più favoriti coloro che in vacanza non ci andranno affatto o faranno semplicemente da pendolari tra mare e casa.
2.  Tra educatori, catechisti e animatori, sotto la guida del parroco, sarebbero mesi favorevoli per tentare anzitutto di fare una approfondita verifica delle attività svolte nel tempo appena trascorso e, successivamente, partendo proprio dai dati offerti dalla verifica, ripensare o progettare le attività che andranno realizzate dal successivo autunno.

Il problema delle nostre parrocchie (non di tutte, ma certamente di molte)? Non tanto e non solo il persistere della mentalità che accennavo all'inizio: luglio e agosto, tempo di ferie anche per la pastorale; ma, cosa ancor più grave, la totale mancanza di quelle due paroline prima accennate: VERIFICA e PROGETTO. Sono sicuro che alcune parrocchie, sotto l'occhio attento del proprio pastore, verificheranno il cammino fatto e progetteranno quello da fare. Tante, troppe altre, invece, vivono "di anno in anno", senza una progettualità, magari pluriennale, che cerca di raggiungere un obbiettivo prefissato verso cui tutte le attività parrocchiali tendono.











venerdì 14 giugno 2013

Quell'ultima notte di seminario

Era venerdì 17 giugno 2011. Quell'anno, il nostro quinto ed ultimo anno di seminario, con mia grossa sorpresa e con un po' di disappunto, la nostra permanenza venne prolungata più del solito. Gli altri anni, infatti, già entro la seconda settimana di giugno "si smontavano le tende".
Si usa, nel Seminario Interregionale di Posillipo, festeggiare l'ultimo giorno vivendo due momenti molto significativi: il primo, celebrativo, vede tutta la comunità di seminario partecipare alla celebrazione eucaristica presideduta dal Rettore. Il secondo, conviviale, in un clima di agape fraterna, ma anche di divertimento, vissuto in terrazza, davanti ad uno straordinario e suggestivo panorama del golfo di Napoli.
Tutto è bello: i seminaristi fanno "memoria" dell'anno appena trascorso, tirano un po' le somme, cercano di considerare gli aspetti su cui ancora maturare e lanciano le basi per progettare l'anno successivo.
Tutto bello, ma velato di tristezza, per i seminaristi dell'ultimo anno, chiamati a vivere l'ultima notte in seminario, invitati, di lì a qualche ora, a lasciare quella che è stata un po' la loro casa per cinque lunghi anni; un luogo vissuto ben 5 giorni su 7, notte e giorno.
Quel venerdì 17 giugno 2011 eravamo noi quelli dell'ultimo anno. Non li conoscete, ma meritano di essere almeno nominati: Mario, Francesco, Luciano, Enrico, Davide, Gianluca, Francesco, Michele, Gianfranco, Antonio, Umberto, Rosario, Vincenzo e il sottoscritto. Quell'anno eravamo noi a dover lasciare il seminario, a dover preparare le valigie definitivamente. Nessuno sapeva cosa il compagno stesse provando in cuor suo, ma vi era una comunanza di espressioni, di voci, di sguardi che diceva: "domani si parte, si va via, chissà se ci rivedremo ancora...".
Confesso subito che non ho mai avuto desiderio di rimanere in seminario oltre il dovuto, ma, vuoi o non vuoi, si creano rapporti di amicizia con dei ragazzi che dividono con te il pane, la scuola, le mète, le cadute per ben cinque anni e ben tante tante tante ore. In effetti, si trascorreva più tempo con i compagni di seminario che con la propria famiglia, che si vedeva solo il sabato e la domenica.
Alla Messa decidemmo di sederci tutti vicini, primi quattro banchi della fila di destra. Poi partecipammo al buffet su in terrazza, dove ci venne consegnato un libro-ricordo regalatoci dai formatori. Terminato il buffet ritornammo nella sala comune della nostra comunità. Per vari motivi, non andammo a dormire subito. Forse, nell'intimo di ciascuno, c'era il desiderio di voler prolungare, possibilmente, quell'ultimo tempo vissuto insieme. L'ora tarda, tuttavia, ci scoraggiò dall'indugiare e ognuno rientrò in camera.
Anch'io andai in camera, ma non chiusi occhio facilmente. L'ultima notte di seminario, l'ultima notte in quella camera, in quel letto, tra quelle mura... Naturalmente fui "vittima" dei ricordi: passai in rassegna con la memoria quei cinque anni, dal primo all'ultimo: il primo ingresso, la prima Messa in comunità il primo anno, i volti di compagni che poi hanno compreso che il Signore li chiamava ad altri progetti di vita, i formatori, i superiori, i docenti.... Tutto ti ritorna in mente...e nel cuore.
Forse mi addormentai senza neppure accorgermene. La mattina la sveglia suonò al solito orario: 7.00. Mi alzai di colpo, completamente dimentico che quella era l'ultima alba di seminario. Me ne ricordai dopo un paio di minuto, convinto che fosse un mattino come gli altri.
Alle 7.30 pregammo ancora tutti insieme le lodi e fu l'ultimo momento celebrativo che facemmo. Poi colazione, ancora saluti ai compagni degli altri anni, alle cuoche, alle signore e poi gli ultimi saluti tra noi.
Con alcuni ci saremmo rivisti per la proclamazione del voto di baccalaureato dopo qualche giorno e così fu. Poi le nostre vite hanno preso strade diverse, anche se sostanzialmente uguali. Ognuno è stato chiamato a realizzare quanto il Signore voleva nel proprio territorio, nelle molteplici diocesi da cui provenivamo. Sicuri di poter proclamare con maggiore forza e convinzione un'espressione che il Rettore Liberti amava dire (presa in prestito da S.Giuseppina Bakhita): "per tutto ciò che è stato, grazie. Per tutto ciò che sarà, sì".

Questa notte sarà l'ultima notte per i seminaristi di Posillipo, che hanno festeggiato come noi due anni fa. A loro il mio più cordiale augurio, perchè possano scoprire sempre meglio cosa il Signore chiede a ciascuno di essi.
In particolare, auguri ai ragazzi dell'ultimo anno che stanotte chiudono un momento fondamentale della loro vita e della loro "sequela Christi" e si preparano ad aprirne un altro non meno importante e significativo nelle diocesi di appartenenza.

D. Filippo
















giovedì 13 giugno 2013

PIETA' POPOLARE: TANTI DOCUMENTI, POCA DECISIONE PASTORALE

E' di appena un mese fa l'ultimo documento che la Conferenza Episcopale Campana (CEC) ha pubblicato sul fenomeno della pietà popolare (processioni, pellegrinaggi, devozioni, ecc.) presente sul nostro territorio. In particolare, i vescovi hanno tentato, attraverso questo ennesimo scritto, di spronare tutti i vari operatori pastorali, in primis i parroci, a prendere sul serio questa realtà e a pensare per essa un progetto pastorale di evangelizzazione.
La pietà popolare non va disprezzata; essa è ormai parte del nostro popolo, della nostra cultura e rappresenta, per molte persone, un tentativo di "contattare" il Trascendente. Il problema si pone quando le feste popolari "non rendono credibile la fede da parte dei lontani", perchè svuotate del loro contenuto cristiano; quando si presentano del tutto "prive di ogni valore di autentica testimonianza cristiana".
Il chiaro riferimento è alle persone che vivono la loro fede soltanto in quesi momenti, quando credono di rendere culto a Dio, alla Madonna o ai Santi esclusivamente in questi getti che poco hanno di autenticamente religioso. Tra queste, purtroppo, non mancano coloro che "vivono notoriamente in situazioni gravemente lesive della giustizia e dei doveri familiari", ma che poi appaiono "zelantissimi nel partecipare a manifestazioni di pietà popolare: processioni, offerte votive, feste patronali, etc.".
Quale rimedio a tutto questo? Nessuna nuova indicazione. I suggerimenti sono sempre gli stessi, anzi, più che suggerimenti sono diventate vere e proprie norme. Il documento le presenta dettagliatamente.
Il vero problema, a mio avviso, riguarda la volontà che i parroci e gli operatori pastorali (animatori, catechisti, partecipanti del Consiglio Pastorale parrocchiale, etc.) hanno di promuovere un serio progetto pastorale che abbia lo scopo i evangelizzare questo fenomeno, di renderlo più autenticamente cristiano e, dunque, più credibile. Affermano i vescovi della Campania: "perchè le feste religiose siano autentiche celebrazioni di fede incentrate sul mistero di Cristo [...] riteniamo indifferibile un'azione pastorale che si proponga [...] di formare, con una seria e puntuale catechesi, una sana opinione pubblica sul significato cristiano di questi riti collettivi".

Cosa avverrà? Il mio timore è che non accada proprio nulla. Il documento di vescovi, come i precedenti (a Nola l'ultimo emanato risale al 2007) rischia di essere ricnhiuso nel "cassetto dei ricordi" quando non addirittura frettolosamente cestinato.
Conosciamo le scusanti; c'è chi dice: "è facile scrivere documenti, ma guardiamo la realtà. Chi è disposto a "scontrarsi" con i battenti di Madonna dell'Arco, con i comitati dei Gigli, con le varie paranze organizzatrici? Come si fa a non fare questue durante le processioni? Come si fa a proibire i fuochi artificiali? E se anche si organizzasse una catechesi di "evangelizzazione", chi verrebbe?".
Ci sono altri, anche parroci, che, invece, guardano quasi con disprezzo i fenomeni della pietà popolare, ritenendoli "roba di popolo", riti di gente semplice, analfabeta, immeritevole di attenzione. Questa loro visione è resa esplicita dal famoso "Vabè..., falli fare..", non avendone alcuna considerazione positiva.
Eppure la pietà popolare non è affatto un fenomeno che va estinguendosi o che non ci appartiene. Come si spiega che migliaia di persone partecipano a certi riti, a certi pellegrinaggi, a certe feste e poi non fanno parte delle nostre comunità parrocchiali? Non sono oggetto di attenzione della cura pastorale? Eppure è un'opportunità incredibile dover poter evangelizzare.
Dovremmo cambiare totalmente registro. Non bastano i documenti, serve sensibilità, cura, attenzione pastorale, per non perdere altro tempo e altre occasioni.
















domenica 9 giugno 2013

IL CUORE COMPASSIONEVOLE DI DIO

A due giorni dalla solennità del Sacro Cuore di Gesù, per una felice coincidenza, la X domenica del tempo ordinario ci propone il racconto del miracolo del giovane di Nain. Questo brano è una "perla" tutta lucana; infatti solo l'evangelista Luca ci riporta questo miracolo.
Gesù si reca a Nain, un villaggio di piccole dimensioni e il suo cammino è interrotto da un rito funebre: un giovinetto, morto, viene portato al luogo della sepoltura. Dietro la bara la madre, vedova, attorniata da partenti e vicini ("una grande folla" sottolinea Luca) in preda alla disperazione più totale.
A questa povera donna la vita non ha risparmiato alcuno strazio; è una donna vedova, un duplice motivo per essere relegata ai margini della società al tempo di Gesù. Le era restata un'ultima speranza, un ultimo appiglio: il figlio, l'unico che aveva. Probabilmente questo figlio avrebbe potuto rappresentare per lei un riscatto economico e anche sociale. Invece le viene rubato anche il figlio. Potremmo dire che non ha più alcun motivo per vivere; ella "muore" con la morte del figlio.
Gesù passa e vede questa donna e proprio non ce la fa a restare indifferente, perchè è Dio e Dio, per sua natura, è amore, è comunione, è carità infinita. Allora si avvicina e, "preso da grande compassione" rassicura la donna: "Non piangere!". Interessante: l'evangelista dice che Gesù si mostra compassionevole e, in greco, utilizza il verbo che indica l'affetto viscerale che prova una mamma per il proprio figlio. Per un istante Gesù e la vedova provano lo stesso sentimento: la donna soffre per la morte del figlio, Gesù soffre per il dolore di questa donna.
Così Gesù compie il gesto: tocca la bara, disinteressandosi delle leggi sulla purità che ogni pio ebreo osservava (chi toccava un morto veniva poi considerato impuro) e resuscita il figlio, ordinandogli di alzarsi "Ragazzi, dico a te, alzati!", il verbo della resurrezione. Questo si alzò e Gesù lo restituì a sua madre.
Questi gesti ci dicono essenzialmente due cose:
  1. Gesù è il Dio della vita. A differenza di Elia (Prima Lettura) che può fungere solo da mediatore perchè il figlio della vedova di Zarepta riprendesse vita e prega Dio perchè ciò accada, Gesù non ha bisogno di pregare Dio Padre, è lui che dà la vita, è lui che ridona esistenza a quel giovinetto, perchè, come dirà nell'ultima cena, ha il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo.
  2. Gesù rigenera relazioni. Il male e la morte interrompono, distruggono le relazioni tra noi; la morte aveva sottratto il figlio alla madre. Gesù, nel restituire il giovane a sua madre, riposiziona la relazione tra i due.
Cosa può suggerirci la Parola di questa domenica? Gli spunti sono infiniti. Forse Gesù vuol dire a noi quella fantastica espressione di rassicurazione: non piangere; a noi che stiamo vivendo una situazione "di morte" Gesù si fa vicino, si accorge di noi, ci dimostra che Dio ha un cuore.
Forse ci suggerirci di alzarci, come fece con quel giovane. Ci incoraggia a riprendere vita, a non restare "caduti", ma a rialzarci, a ripartire. Alzati, risorgi, non restartene chiuso nella tua situazione di "morte".
Forse vuol insegnarci a essere uomini e donne di relazione, capaci di costruire relazioni, ponti di comunicazione con chi ci è vicino.

Buona domenica


















sabato 8 giugno 2013

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